[Pubblicato su Internazionale.it, 17/06/2016]
Italo Calvino scrisse che “di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda." Nel caso di una città come Londra, le domande di chi arriva sono probabilmente sfaccettate quanto la città. Una capitale il cui dinamismo architettonico, negli ultimi anni, dà l'impressione di un'evoluzione continua, accelerata e quasi isterica; dove il nuovo sindaco musulmano partecipa a una veglia per le vittime di Orlando a Old Compton Street, cuore storico della comunità londinese gay; e dove un elettorato giovane e cosmopolita voterà in maggioranza, secondo i sondaggi sul referendum ormai vicinissimo, per restare in Europa.
Ma Londra, pur con tutte le sue sfaccettature ed evoluzioni, non è la città-stato indipendente sognata da molti londinesi. Il referendum sarà deciso soprattutto dal resto del paese. E per tanti elettori nell'Inghilterra rurale e nelle città minori, i cataclismi economici che potrebbero colpire la capitale in caso di Brexit – come le aziende internazionali che sposteranno i loro uffici a un'altra capitale europea e le stime sul numero di posti di lavoro che andranno persi – non sembrano contare molto. La sola questione in grado di accendere il loro interesse emotivo resta la massiccia immigrazione europea, con le paure che essa solleva. E se il recente omicidio della deputata Jo Cox da parte di un fanatico di estrema destra ribalterà queste paure, è un quesito per i prossimi giorni.
Londra è una città in bilico. Lo è ancora di più per le centinaia di migliaia di europei che ci vivono, nessuno dei quali ha un'idea sicura di come potrebbe cambiare la loro vita dopo il 23 giugno. Dovranno regolarizzare la loro posizione di residenti stranieri con lunghe burocrazie? Varrà la pena restare se l'economia subirà un brusco contraccolpo? Anche in caso di vittoria della permanenza in Europa, la questione non sarà archiviata: l'immigrazione europea continuerà e l'inquietudine degli elettori britannici, esasperata in modo irreversibile dalla campagna Brexit, resterà come una fatale mina vagante.
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Poche ore prima dell'apertura dei seggi, la sera prima del referendum, ci sarà a Londra una proiezione in anteprima di un film documentario (che sarà presentato il 18 giugno anche al Taormina Film Fest). Lo ha girato Luca Vullo, si intitola Influx e parla di un afflusso specifico di europei a Londra: quello degli italiani. Mentre in Italia ci si accorge, quasi con sorpresa, dell'emorragia demografica che sta facendo calare il numero dei residenti nella penisola, 57000 italiani hanno chiesto, solo l'anno scorso, il national insurance number necessario per lavorare in Gran Bretagna. Influx è un esempio dell'esigenza sempre più sentita, da parte di quella sorta di ventunesima regione italiana costituita dai nuovi emigrati italiani, di essere narrata e riflessa.
Documentario non lineare, coraggiosamente inquieto, che sembra a volte in cerca di un focus proprio come alcuni degli italiani che intervista, Influx finisce per diventare un'inchiesta nei caratteri italiani che si rivelano, come a contatto con un reagente, nell'atmosfera della città-mondo inglese.
Il ritratto che ne risulta è sfaccettato e in bilico quanto Londra stessa. Un misto di intraprendenza, ingenuità, stereotipi (l'italiano inetto con la burocrazia e nel rapporto con le istituzioni, gli inglesi incapaci di esprimere i loro sentimenti); il rapporto bipolare, tra abissi di vergogna e punte di compiacimento, con il proprio orgoglio nazionale; il sospetto-speranza di non essere immigrati come gli altri: “Gli inglesi ci amano molto”, dice Ornella Tarantola, tra gli intervistati, anche se “non so se ci stimino: sono due cose diverse”.
La narrazione più ricorrente nel film è quella dell'italiano intraprendente che trova a Londra un sogno quasi americano in cui fiorire. L'arena capitalista equa, meritocratica, senza le complicazioni italiane. Lasciami mostrare quello che valgo – è questa la domanda più forte che l'italiano rivolge alla città? A incrinare tale “narrazione meritocratica” emerge a volte la voce dei più giovani, i ragazzi semianonimi che servono caffè o lavorano nelle retrovie dei ristoranti, non sempre con possibilità di carriera. “Londra può essere una città solitaria, frenetica, fredda” riflette una ragazza. “Se non la divori, ti divora lei.”
Influx si spinge anche nelle zone d'ombra, nei racconti di chi non ce la fa, finisce a vivere per strada o a cercare appoggio psicologico. Un'altra intervistata, la psicoterapeuta Daniela Fanelli: “Mi parlano di momenti di ansia che sfociano in attacchi di panico, mancanza di autostima, sentimenti depressivi, dubbio: cosa faccio, rimango qua, torno in Italia?” È in questi momenti che il film, al di là degli ottimismi sulle mille possibilità che l'animo italiano trova a Londra, sfiora la realtà dura e riflettente della metropoli odierna. In fondo, la domanda che conta non è quella che poniamo a Londra, ma quella che Londra pone a noi. E la domanda è: chi sei? Una domanda radicale di questi tempi. Londra non ha pietà per chi non sa rispondere al volo. È troppo dura, troppo cara, troppo competitiva per permettere indugi.
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Il referendum non viene mai nominato in Influx, anche se con lo sguardo di questi giorni sembra aleggiare in ogni suo fotogramma.
L'universo di esperienze che è il lavoro italiano a Londra si lega fatalmente proprio ai temi del referendum. Una delle denunce dei fautori della Brexit che fanno breccia fra gli elettori britannici working class è che l'immigrazione europea favorisce il ribasso degli stipendi per i lavori non qualificati. Può trattarsi in parte di paranoia, ma molte esperienze sembrano confermare. Potrebbe bastare questo a suggerire che un numero crescente di immigrati europei, italiani inclusi, non sono qui per approdare a nuove entusiasmanti carriere, ma per competere con la manodopera locale nei lavori meno qualificati.
Un altro dato significativo è l'età media dei londinesi: l'ultimo censimento la dava a 34 anni e in calo costante. È un dato che dice molto sull'afflusso di ambizioni giovani e sul ricambio energetico della città. Ma anche sulla scelta di molti di non restarci.
Anche per chi arriva con qualifiche e obiettivi chiari, la vita londinese può prendere la forma di lavori provvisori al salario minimo, alloggi sovraffollati e in condizioni da romanzo dickensiano, viaggi giornalieri di ore su vagoni gremiti e non sempre conformi al mito dei britannici civili e bravi a fare la fila. La realtà quotidiana della città è spesso questo. La crisi delle abitazioni è l'emergenza più pressante, con l'affitto medio intorno all'equivalente di duemila euro (fuori portata non solo per chi lavora nei coffee shop, ma anche per professionisti con stipendi medio-alti).
Otto anni di governo cittadino di Boris Johnson, in congiura con il governo nazionale Tory, hanno lasciato una città dove il dinamismo confina ambiguamente con un iperliberismo deregolarizzato, e dove la competizione in ogni ambito vitale – per il lavoro, per la casa, per l'accesso ai servizi pubblici – ha smesso di essere uno stimolo equilibrato. È diventata una competizione gonfiata agli steroidi, dove a beneficiare sono anzitutto speculatori finanziari e grandi compagnie; quindi, una fascia sempre più selezionata di professionisti qualificati; per poi far pagare il prezzo della dinamica a tutti gli altri.
Se nonostante questo i giovani italiani continuano a scegliere Londra è perché, certo, questa metropoli ha tutt'altro che smesso di offrire occasioni di vita e di crescita; offre ancora un senso di illimitata intensità, in cui sentirsi, se non altro, inesauribilmente vivi. Cosa sarà della città – depressione economica post-referendum, chiusura all'immigrazione, oppure evoluzione in una città ancora più globalizzata, con tutte le meraviglie e le contraddizioni che ne deriveranno – è una domanda che riguarda i suoi milioni di cittadini britannici e non britannici. E gli italiani di Londra. Quelli di successo e quelli che si perdono, e i tanti che restano in bilico a metà.