[Pubblicato su Internazionale.it, 24/09/2016]
Un anno fa, quando Jeremy Corbyn fu eletto leader del Labour Party, da sostenitore del partito fui fra quelli che lo votarono. Corbyn appariva una grande occasione. Era un pacifista radicale e anti-austerità. Reduce da trent'anni di campagne sociali, aveva il carisma di un venerabile outsider. Anche Ed Milliband, il leader uscente, aveva un cuore a sinistra e aveva traghettato il partito fuori dall'era post-blariana. Ma non era mai riuscito ad accendere veri entusiasmi. Corbyn, al contrario, aveva catturato l'interesse di giovani attivisti, scatenato una “Corbymania” e indotto migliaia di persone a iscriversi al partito pur di votare per lui alle primarie. Quel tipo di mobilitazione sembrava una possibile via per superare lo stallo della sinistra britannica, e magari non solo britannica: una stagione in cui i concetti di partito e movimento tornavano in grado di sciogliersi e unirsi.
La mia scelta non era priva di dubbi e mi costò una crisi di coppia. Il mio compagno, iscritto Labour da vent'anni, non la vedeva come me. Predisse anzi con tono lugubre che, con la sua posizione da europeista tiepido, Corbyn avrebbe causato l'uscita del Regno Unito dall'Europa.
Ma il referendum sulla Brexit sembrava ancora lontano. Continuai a sperare in Corbyn anche quando, nelle prime settimane di leadership, infilò una serie di gaffe politiche. Il governo ombra senza donne; Corbyn che conferisce e toglie incarichi nel partito senza neppure avvertire gli interessati; rifiuta di cantare l'inno nazionale e di seguire i cerimoniali agli eventi ufficiali. Corbyn che in parlamento si limita a leggere le domande per il primo ministro raccolte via mail da cittadini qualunque – una trovata assai modesta. Per i sostenitori, erano conferme che Corbyn non era un “politico come gli altri”. Per gli scettici, erano segni che Corbyn non era maturato nel suo nuovo ruolo di leader, mancava di competenze politiche, e si era circondato di una squadra poco preparata.
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Oggi, dopo un anno travagliato e una lotta interna al partito sfociata in nuove primarie, Corbyn sarà confermato leader. La sua nuova vittoria è quasi certa. Dal canto mio, questa volta non ho votato per lui.
Il movimento di massa che sembrava crescere intorno a lui non si è mai concretizzato. È vero che gli iscritti al partito sono aumentati, e Corbyn è appoggiato da alcune centinaia di migliaia di sostenitori online – quelli che gli permettono di vincere le primarie. Ma Momentum, l'associazione di attivisti che fa da braccio “di movimento” alla squadra di Corbyn, è rimasta un gruppo ristretto e dal carattere settario. Il consenso per il Labour nel frattempo è crollato; il partito è ai minimi storici dagli anni Ottanta, con uno svantaggio tra gli undici e i sedici punti percentuali rispetto ai Tory, a seconda dei sondaggi. Addirittura, in un sondaggio estivo di YouGov, circa un terzo degli stessi elettori Labour preferiva come primo ministro Theresa May, leader dei conservatori, piuttosto che Corbyn.
Perché l'entusiasmo pro-Corbyn non è mai andato oltre i numeri di un anno fa, e il paese non si è innamorato di lui? Non può essere solo per l'ostilità degli oppositori e di molta stampa. Né per la tradizionale tendenza della classe media soprattutto inglese verso scelte conservatrici. Sadiq Khan a Londra, e i sindaci di sinistra che governano altre città del paese, hanno superato gli stessi scogli.
Corbyn si è dimostrato un personaggio ricco di chiaroscuri. Pieno di ideali sinceri e solidali, eppure al tempo stesso bizzoso. Professa il dialogo ma sfugge alle contestazioni, si sottrae indispettito alle domande dei giornalisti. Fa proclami di unità, ma non ha fatto molto per bloccare le voci di “deselezione” dei parlamentari moderati (che prima di ripresentarsi in circoscrizioni già vinte in precedenza sarebbero costretti a chiedere il via libera dagli attivisti locali, ovvero dai “Corbynisti”). Non ha reagito con prontezza alle accuse di antisemitismo, sessismo, bullismo che sono piovute sul Labour nell'ultimo anno a causa di una frangia di sostenitori del nuovo leader. Ha snobbato importanti talk show politici ma in compenso ha fatto strambe comparsate in programmi comici. Durante una delle tante crisi di immagine, a causa di una controversia con la Virgin Trains, si è reso irreperibile perché, secondo diverse fonti, era impegnato a cucinare marmellate.
Forse l'elettore medio inglese non diffida di Corbyn solo perché è di sinistra; forse lo trova una specie di lunatico. Quanto a me, fino a giugno, ero ancora dalla parte di Corbyn. Era giusto aspettare che avesse l'occasione di affrontare una prova seria, dimostrando una volta per tutte se era all'altezza del suo ruolo. Poi quella prova è arrivata.
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Nel pieno della campagna per il referendum sulla Brexit, Corbyn è andato in vacanza. Il Labour era assente dai dibattiti sul referendum e, ancora a una settimana dal voto, un terzo di elettori laburisti non sapeva quale fosse la posizione del partito. Un'impietosa ricostruzione dell'Huffington Post britannico, pochi giorni dopo il referendum, ha mostrato che pur concordando che il Labour doveva sostenere il Remain, Corbyn è rimasto indeciso sul messaggio preciso da dare. Ha lasciato che la sua squadra gestisse in modo pasticciato la campagna, in alcuni casi sabotandola, in contrasto con la posizione ufficiale del partito.
Il risultato è che il 37% degli elettori Labour ha votato per l'uscita dall'Europa. È avvenuto soprattutto nel Nord dell'Inghilterra, dove il Labour, pur essendo il riferimento tradizionale della classe lavoratrice, non sta catalizzando il disagio sociale, assorbito invece dai nazionalisti del UKIP. Difficile dire se una campagna più decisa di Corbyn sarebbe bastata a cambiare il risultato del referendum. Ma quanto accaduto va oltre il merito del voto. Come ha scritto in seguito Sadiq Khan, “quello del referendum è un test che Jeremy ha fallito del tutto. E perché le cose dovrebbero andare diversamente alle prossime elezioni politiche?”
Ad aggravare il fallimento è stato il rifiuto di Corbyn di assumersi responsabilità; all'indomani del voto rispondeva con sorpresa, come incapace di vedere qualsiasi collegamento, a chi gli chiedeva se si sarebbe dimesso.
È allora che i parlamentari Labour devono aver sentito di trovarsi in un vuoto di leadership. Devono averlo sentito come una scossa. Quattro quinti di loro, 172 deputati, hanno votato una mozione di sfiducia contro Corbyn. In quei giorni, un dettaglio che colpiva erano i racconti di coloro che prima di votare la sfiducia cercavano di entrare in contatto con il leader, senza riuscirci. Corbyn non si faceva trovare. La comunicazione non sembra il suo forte.
Con un leader diverso, dopo il disastro Brexit, con un governo in rotta e i Tory dilaniati dalla guerra per la successione a Cameron, il Labour sarebbe schizzato in testa ai sondaggi; avrebbe potuto chiedere elezioni immediate. Invece, i conservatori hanno avuto il tempo di ricompattarsi attorno a Theresa May. Il volto del Regno Unito post-Brexit intanto resta incerto. I cittadini europei che vivono nel paese non hanno garanzie, mentre il timore di molti è che i conservatori, fuori dall'Europa, imporranno una deriva ancora più neoliberista e punitiva per i lavoratori. Di sicuro, i conservatori non sono preoccupati che l'opposizione abbia la forza di contrastarli o minacciarli nei sondaggi.
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Per molti Corbynisti, la graduale perdita di peso politico del Labour non sembra un problema. Spesso, parlando con loro, si percepisce un disinteresse per la storia e i valori del Labour. Sono galvanizzati dall'idea di entrare nella stanza dei bottoni di un grande partito, ma incuranti dei suoi destini elettorali. I veri nemici di fatto non sono i conservatori; la battaglia in corso non è per il governo; la battaglia è anzitutto contro i laburisti anti-Corbyn. Ed è una battaglia che spesso prende una tipica mentalità anti-sistema.
Il sistema, l'establishment, in questo caso includerebbe la totalità della stampa, incluso il Guardian (che pure ha ospitato opinioni sia contrarie che favorevoli a Corbyn); e le varie voci di politici e artisti secondo cui il Labour, sotto la guida di Corbyn, è in un vicolo cieco. Quando la scrittrice JK Rowling ha espresso su Twitter il suo sostegno a Owen Smith, l'attuale contendente per la leadership, si è presa la sua razione di insulti e trolling online.
I semi di populismo nel movimento pro-Corbyn sono stati spesso denunciati – a partire dalla presunta assolutezza del “mandato democratico” da parte di chi ha votato online alle primarie, che renderebbe nullo il dissenso della “elite” dei parlamentari. Corbyn ha insistito di non volersi dimettere, nonostante l'ostilità della quasi totalità dei suoi parlamentari, perché ha ricevuto un mandato alle primarie. È una questione che interroga i partiti, soprattutto di sinistra, non solo nel Regno Unito: a chi appartiene un partito? Ai suoi parlamentari eletti o a un gruppo di sostenitori online che stravolge il risultato delle primarie?
Ma l'ottica dello scontro tra sistema e anti-sistema, in realtà, suona qui insufficiente. La prospettiva che mi preme è di tipo più pratico. Forse ho raggiunto quel momento in cui tanti animi di sinistra, invecchiando, diventano moderati e fin troppo realisti. Forse per questo ho smesso di votare per Corbyn. O forse, nell'inquietante senso di spaesamento del dopo-Brexit, voglio soltanto sapere chi difenderà i diritti dei cittadini europei come me; voglio sapere chi impedirà al Regno Unito di trasformarsi in un paese isolato e xenofobo; chi lotterà contro le tentazioni neoliberiste del governo May; chi aiuterà le fasce a reddito medio-basso, me incluso, a continuare a pagare l'affitto. Non si tratta solo di essere percepiti come una forza che può, e vuole, ambire al governo. Si tratta della capacità di influenzare il dibattito politico e di essere presi sul serio.
A un anno dalla sua elezione il carattere di Corbyn sembra ancora quello di un attivista cane sciolto. Ha fatto alcune cose importanti – come quando ha dato guerra al governo sul progetto di tagliare i sussidi per i cittadini disabili. Ma i suoi spazi di manovra sono sempre più esigui. Anche vincendo di nuovo le primarie, è un leader delegittimato. Il suo partito sembra andare verso una scissione.
Owen Smith, il deputato gallese che ha sfidato Corbyn per la leadership, non sarà un fascinoso rivoluzionario e potrebbe non essere la risposta definitiva ai travagli del Labour. Ma ha detto cose di sinistra sensate e realizzabili. All'ultimo dibattito per la leadership, Corbyn ha risposto con i suoi appelli a una società più equa, appelli che suonano bene e strappano applausi. Ma restano generici e non dicono nulla su come pensi di arrivare al governo.