[Ad ora, il miglior commento che ho letto a proposito di Diaz. Apparso su Alias de Il Manifesto, 21 aprile 2012]
Stato di diritto e memoria senza proprietà. Dove arriva l’impronta di «Diaz»
di Ida Dominijanni
Di ritorno da Genova, molti di noi per settimane non riuscivano a dormire, o dormivano in preda agli incubi. Era il sintomo, diffuso, dell'impronta che quelle tre giornate avevano stampato sull'inconscio. Di ritorno dal cinema, leggo nelle lettere al manifesto su Diaz, molti non riescono a prendere sonno. È il sintomo dell'impronta che il film lascia sull'inconscio, o di quella stampata da quei giorni che riattiva.
Che cosa debba fare un film politico, o di impegno civile o come lo si voglia chiamare, si vede dai commenti a Diaz e a Romanzo di una strage che è ancora materia di contesa. Dirò la mia, scontando l'inadeguatezza su queste pagine che sempre mostrano come il cinema sia sempre politico. Sembra che un film su Genova 2001 avrebbe dovuto dire da capo tutto: il movimento, la stagione politica,l'assassinio di Carlo, i responsabili del massacro uno per uno, Fini che era lì e manovrava e la sinistra responsabile che non era lì e glissava, e Mortola e Canterini e gli altri, e le promozioni al posto delle dimissioni, e le sentenze al di sotto del dovuto. Dire, o confermare? Tutto questo è stato detto e scritto, l'abbiamo detto e scritto, cento e mille volte; sta, come si dice, agli archivi (dei giornali e del parlamento, perché la commissione d'inchiesta non c'è mai stata ma quella d'indagine sì, e non fu inutile); e chi fin qui non l'avesse letto, spinto dal film può sempre consultarli.
Tutto questo, è vero, il film non lo ripete. Taglia e mette a fuoco la parte per il tutto come Vicari ha rivendicato su Alias scorso e come sempre fa, e deve fare, una telecamera. Quel taglio non rivela le mancanze del film: ne decide, al contrario,l'efficacia. Due cose, su questo. La prima, politica. Non è mai stato né ovvio né facile, dopo i fatti di Genova, imporne la lettura nei termini, che sono quelli giusti, della sospensione dello stato di diritto. Metterla nei termini più classici del conflitto fra movimento e repressione era per tutti – i portatori della ragioni sacrosante del movimento, e i costruttori patenti o latenti del teorema della colpa del movimento – più facile che realizzare il cambio di paradigma del potere globale di cui Genova era stata la prova generale: non più repressione contro movimento, ma stato d'eccezione contro stato di diritto. Si vide meglio con l'11 settembre, che infatti servì a passare dalla prova generale alla prima in pompa magna. È questo che Diaz mette a fuoco, ed è qui che le presunte mancanze o i presunti errori rafforzano, anziché indebolire, il taglio del film: perché l'assenza dei nomi dei carnefici non assolve il potere ma lo spersonalizza,segnalando che quell'orrore è ripetibile; come la presenza dei black bloc alla Diaz non attenua la sproporzione del massacro ma la inchioda, ricordando che in uno stato di diritto le garanzie appartengono, o dovrebbero, a tutti, black bloc compresi.
La seconda cosa, meno politica, o forse più. Non è mai stato ovvio né facile nemmeno, di Genova, salvare la memoria impressa nei corpi, i quali, come il cuore, hanno ragioni che la ragion politica non conosce. La paura, fisica, di morire intrappolati nelle gallerie sotto carica, l'impossibilità di cambiarti il tampax se avevi le mestruazioni, l'effetto sulla pelle dei lacrimogeni urticanti, il dolore e gli urli delle vittime della Diaz, le ferite meno urlanti ma altrimenti dolenti di quante e quanti, arrivati per partecipare a un rito collettivo d'iniziazione alla politica, se ne andarono iniziati alla brutalità della forza e piegati alla rinuncia per impotenza. Impronte nell'inconscio, appunto: Diaz le riattiva, e le libera. Ti riporta dentro l'universo concentrazionario di quei giorni per mostrarti, finalmente, la via di fuga. Cos'altro deve fare un film politico? Aprire ancora due domande forse, queste. Cos'è questo bisogno di new realism che cerca e trova conferma e certificazione dei fatti solo nei nomi, nelle sentenze, nei documenti, nei bolli e nei protocolli, come se la verità del realmente accaduto e del politicamente vissuto non avesse altre vie per imporsi? E questo bisogno non ha per caso a che fare con un senso proprietario e fragile della memoria, come se senza quel supporto di documenti e di certificati non avesse altre vie per trasmettersi? Da Diaz, della memoria di Genova chi c'era può sentirsi finalmente e felicemente espropriato. Per una volta, proporrei di festeggiare.